Dopo Nord America, Africa ed Europa, è arrivato il momento di spostarsi nel Sud Est asiatico. Cambiamo prospettiva e sblocchiamo un nuovo potenziale immaginativo, calandoci in un contesto in cui il cristianesimo non è la religione principale del Paese, bensì una minoranza.
È cominciata la 6° e nuova stagione di Cristianə a chi?, il podcast che conduco con Paola Lazzarini (sociologa) e Sandra Letizia (teologa). Nel primo episodio parliamo di soldi.
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Fabio Dal Maso mi ha intervistata per la newsletter Territori innovativi, che racconta storie di inclusione, sostenibilità e innovazione nei territori locali. Si legge qui.
Detto questo, iniziamo!
Alcune persone cattoliche riportano che hanno difficoltà a ottenere i permessi per costruire le chiese
L’ospite di questo mese è Ahmad Alex Junaidi, docente di Giornalismo presso l’Università Tarumanagara di Giacarta, cofondatore e membro del consiglio direttivo di SEJUK.
La quarta tappa è proprio l’Indonesia: l’arcipelago più grande al mondo e il Paese con il più alto numero di persone musulmane (più di 242 milioni). Ho conosciuto e intervistato Ahmad Alex Junaidi a settembre 2024, quando era in corso il viaggio apostolico di papa Francesco tra Sud Est asiatico e Oceania. Oggi ci racconta cosa caratterizza il cristianesimo indonesiano.
Quando la distribuzione geografica è una questione identitaria
Rispetto alle tappe precedenti di Senza mulini, siamo davanti a un contesto sociale e religioso differente. Secondo l’Indonesian Information Portal, infatti, l’87.2% della popolazione indonesiana è musulmana. Il secondo gruppo - in base al numero di fedeli - è composto da persone protestanti (6.9%) e poi c’è la componente cattolica (2.9%).
Ciò che rende il contesto indonesiano ancor più peculiare è la distribuzione dei gruppi religiosi, che segue una marcata linea geografica.

Le isole occidentali (in particolare Sumatra, Giava e parte del Kalimantan, cioè la porzione indonesiana del Borneo) sono a prevalenza musulmana. In queste regioni, l’Islam rappresenta spesso oltre il 90% della popolazione locale. Tuttavia, si notano delle sacche di presenza cristiana, come in alcune parti della Sumatra settentrionale e centrale o nel Nord di Sulawesi.
Man mano che ci si sposta verso Est, la situazione cambia: nelle Molucche, Papua Occidentale e Papua, la popolazione è a netta maggioranza cristiana, sia protestante che cattolica.
Questa divisione è il risultato di influenze storiche e coloniali: l’Islam si è diffuso soprattutto da Ovest verso Est attraverso il commercio e i sultanati, mentre il cristianesimo – portato dalle missioni portoghesi e olandesi – si è radicato con più forza nell’Est del Paese, dove l’influenza islamica era meno consolidata.
A tutto ciò si aggiungono le migrazioni interne dovute al programma di trasmigrazione iniziato dal governo coloniale olandese (XIX secolo) e poi portato avanti da quello indonesiano dopo l’indipendenza (1949) fino agli anni ‘10 del 2000. Questo piano prevedeva lo spostamento permanente di milioni di persone soprattutto da Giava, ma anche da Bali e Madura, verso le aree con minor densità (come Kalimantan, Sumatra, Sulawesi, Molucche e Papua).
Pensato per contrastare sovrappopolazione e povertà, il programma ha però suscitato tensioni: le comunità locali hanno denunciato un processo di giavanizzazione e islamizzazione che, in alcune aree, ha alimentato i movimenti separatisti e i conflitti interreligiosi.
Quanto è difficile costruire una chiesa?
Ahmad Alex Junaidi mi ha raccontato di alcune tensioni che si verificano soprattutto nei distretti in cui le comunità cristiane sono una netta minoranza. Le chiese hanno una certa diffusione e la loro architettura mostra l’intersezione tra tradizioni e stimoli spirituali diversi. Eppure si segnalano la demolizione di edifici sacri e la difficoltà nella costruzione dei luoghi di culto.

Infatti la normativa, contenuta principalmente nel Regolamento congiunto del Ministero del Culto e del Ministero degli Interni del 2006, prevede che per costruire un luogo di culto - di qualsiasi religione - siano necessari dei requisiti tra cui almeno 90 firme di fedeli che intendono frequentare il luogo; almeno 60 firme di residenti della zona che acconsentano alla costruzione; l’approvazione del capo del villaggio o dell’amministrazione locale e il parere positivo del Forum per l'armonia tra le religioni (FKUB).
Di conseguenza quando si vuole erigere una chiesa in un quartiere a maggioranza musulmana, capita di incontrare forti resistenze da parte delle persone residenti, che possono rifiutarsi di firmare. A ciò si può aggiungere anche un clima di corruzione, che sblocca l’iter delle pratiche solo dietro il pagamento di tangenti.
Inoltre, come spiega Junaidi, il FKUB è spesso composto per la maggior parte da leader musulmani, il che rende difficile siglare i permessi per le minoranze religiose che adibiscono quindi a luoghi di culto gli edifici più diversi, come case private, ex magazzini o sedi della polizia. Spazi decentrati e lontani per molte persone che si trovano a dover coprire lunghe distanze e spese non irrisorie per assistere alla messa domenicale. Per via di questo contesto, a volte non ci vanno affatto.
Come ha detto a SEJUK il pastore Luspida Simanjutak, della comunità protestante HKBP (Huria Kristen Batak) di Bandung, nella Giava occidentale:
Fondare una chiesa è molto più difficile che gestire una discoteca
Si registrano inoltre casi di chiese prese di mira da gruppi che si definiscono “anti apostasia” (che vedono quindi la conversione e la diffusione del cristianesimo come tradimento dell’identità indonesiana). Le croci vengono smantellate, gli oggetti per il culto rimossi (sedie comprese), la Bibbia gettata via.

Le proteste arrivano a far chiudere gli edifici religiosi o a spostare le comunità. Come la Chiesa protestante di Pasundan (in indonesiano Gereja Kristen Pasundan, GKP) di Bandung, che tra il 2008 e il 2020 si è spostata a 8 km di distanza dalla sede precedente.
In alcuni casi i gruppi cristiani sono accusati di disturbare la quiete della comunità circostante, turbata dalla presenza cattolica o protestante al suo interno. Junaidi spiega che questa viene tacciata di proselitismo e le tensioni aumentano quando sono gli stessi gruppi cristiani a considerare i luoghi di culto nativi delle “chiese sataniche”. Non sono del tutto estranee nemmeno le aggressioni.
Nonostante quindi la costituzione indonesiana preveda la salvaguardia della libertà religiosa all’interno di un Paese che separa fede e Stato, la realtà concreta pare essere diversa. E non solo per la trafila che attende chi vuole costruire un edificio di culto.
Di che religione sei? Lo dice la tua carta d’identità
Junaidi racconta anche dell’indicazione dell’appartenenza religiosa sul documento d’identità. Questo è sicuramente un aspetto che da una prospettiva italiana risulta insolito.

Sulla carta d’identità indonesiana si può selezionare solo una delle sei religioni menzionate e tutelate dalla legge sulla blasfemia: Islam, cattolicesimo, protestantesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo. Non esiste l’opzione “nessuna religione” e chi lascia il campo vuoto (spesso chi segue una religione autoctona) potrebbe avere difficoltà ad accedere ai servizi governativi e finanziari.
Possono esserci dei problemi a compilare la denuncia di smarrimento della patente, ad aprire un conto in banca, a farsi registrare il matrimonio o la nascita di un figlio o di una figlia. Human Rights Watch ha intervistato due famiglie Bahá'í che non sono riuscite a ottenere carte d'identità, certificati di nascita e certificati di matrimonio proprio perché il sistema non includeva la loro religione.
Anche scegliere una delle sei religioni riconosciute pur essendo dichiaratamente seguace di un altro credo può essere un problema. Sempre Human Rights Watch riporta infatti che nel 2012 una persona atea, una che segue un culto tradizionale e un religioso sciita (l’Islam diffuso in Indonesia è sunnita) sono statə incarceratə per blasfemia dopo aver dichiarato l'Islam come loro religione sul documento d’identità.
Perché tutto questo? La radice è da ricercare in uno dei principi della pancasila, la filosofia nazionale che costruisce l’idea di uno Stato deista non confessionale. L’Indonesia afferma cioè l’esistenza di un Dio unico e ammette la libertà religiosa di chi crede in un Dio unico. Riconosce l’influenza della fede nella vita delle persone e ufficialmente non prende posizione sulla validità di una religione rispetto a un’altra. A patto che questi credi rientrino nel primo principio della pancasila - fede nell’unico e solo Dio - che non prevede il riconoscimento dei culti tradizionali, bensì la costituzione di una gamma precisa di religioni accettabili.
Infine si aggiunge il fatto che nel 2023 una sentenza della Corte Suprema ha invitato i tribunali di grado inferiore a rispettare una legge del 1974 che vieta i matrimoni interreligiosi. Tutto ciò non riguarda solo le persone cristiane, ma ogni minoranza religiosa, comprese le correnti islamiche meno diffuse in Indonesia, come quella Ahmadiyya.
Di conseguenza, numerosi sono stati gli appelli a livello internazionale e nazionale rivolti al governo perché affronti l’intolleranza religiosa e promuova un contesto di pace. Questo fermento verso il dialogo tra culture e fedi ha generato anche numerose iniziative di convivenza e scambio tra comunità. Ma di questo leggerai nel prossimo numero.
To be continued
Per oggi ci fermiamo qui. Nel prossimo numero scoprirai:
le numerose iniziative positive per il dialogo interreligioso;
il ritorno alle religioni tradizionali per allontanarsi da quelle che vengono viste come fedi importate;
di quando Giacarta ha ospitato papa Francesco.
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Grazie per aver letto fino a qui. Ci ritroviamo tra due settimane!
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